Oggi è stato pubblicato un mio intervento sul blog collettivo Nazione Indiana.

Quando non posto di solito è perché sto facendo altre cose, prima o poi se ne dovranno vedere anche i risultati si spera. Questo è, appunto, un piccolo risultato del lavoro degli ultimi tempi.

Lo posto anche qui in maniera da renderlo ulteriormente disponibile ringraziando ancora Andrea per la disponibilità e per le discussioni degli ultimi tempi.

Autorevole: qualcuno che goda di grande autorità e prestigio.
Avanguardia: nell’esercito e nella marina, unità militare posta in posizione avanzata a scopo di protezione o di difesa, ma anche gruppo o movimento artistico che sperimenta nuove forme espressive in contrasto con la tradizione e il gusto corrente.

Vorrei cominciare questo mio intervento sulle modificazioni sociali apportate dai nuovi modelli di sviluppo mediatico, considerando questi due concetti, che un po’ di tempo fa hanno suscitato dibattito in rete (vedi l’ultimo numero di « Per un Critica Futura » e la discussione su « Blog e poesia »).

Fondamentali sono, a mio avviso, le premesse semantiche costitutive dei due termini: la necessità, per il primo, di un criterio e di qualcuno capace di essere riconosciuto come autorevole dal proprio pubblico, e la necessità, per il secondo, di una direzione riconosciuta socialmente. Nel caso non si avesse un criterio in base al quale stabilire l’autorevolezza di un’opera o di un artista, o nel caso non esistessero organismi socialmente riconosciuti che si occupino di stabilirla, essa non potrebbe essere. Se la società non avesse una direzione riconoscibile l’avanguardia non potrebbe esistere, non sapendo davanti a cosa, davanti a chi porsi. Storicamente quindi questi due termini si sono sviluppati parallelamente al mondo accademico, costituendo un legame conflittuale, ma che pareva inscindibile, tra artista e studioso.

Nell’ottica tradizionale troviamo dunque legati l’accademico che si occupa della riproduzione sociale del capitale culturale, per dirla con Bourdieu, e l’artista che riesce a comprendere la direzione della società prima della massa dei contemporanei. L’artista, utilizzando la propria arte, rende noto un cambiamento e mette in moto un circolo virtuoso in cui il semplice fatto di descrivere la società e la direzione da questa presa, aiuterà a concretizzare i mutamenti stessi che, a loro volta, saranno premessa per le forme artistiche a venire. L’accademia, in quanto luogo di formazione e di riproduzione del sapere, in quanto depositaria del patrimonio culturale contemporaneo, riveste il ruolo di auctoritas in grado di stabilire quanto il lavoro dell’artista sia conforme e quanto invece no rispetto ai canoni sociali. L’artista non deve essere oltremodo innovativo (pena il non essere socialmente riconosciuto), ma neppure eccessivamente ligio ai canoni presenti (altrimenti i due ruoli sociali, quello accademico e quello di ricerca verrebbero a sovrapporsi). Secondo questo pensiero esiste dunque un circolo interpretativo tra artista e società, tra arte e cultura di massa mediato grazie alla struttura scolastica. Esso ha funzionato per lunghissimo tempo, ma siamo ancora capaci, oggigiorno, di dargli un senso? E in caso la risposta fosse positiva, come rappresentarlo?

La società moderna è estremamente più complessa rispetto a quelle del passato. Non saprei se il termine postmoderno sia già dotato di valore euristico o se ancora dovremmo parlare di modernità avanzata, come propone, ad esempio, Anthony Giddens. Tuttavia è cosa ormai certa che stiamo assistendo ad un decadimento delle élite culturali accademiche poiché la stessa scienza (escludendo forse la tecnica) non è più in grado di fornire modelli che paiano completi e affidabili come in passato per gestire la conoscenza. Il decadimento, tuttavia, dell’attuale metodo di classificazione e gestione del sapere non deve indurci a proclamare la “fine ultima della storia”, l’indicibile perdita di ogni significato. Questo perché il decadimento è proprio di un determinato meccanismo classificatorio, non dell’indefinito numero di tutti quelli potenzialmente elaborabili.
Partiamo dunque dall’assunto del caos quasi incontrollato come prima descrizione che potremmo avere della nostra situazione attuale nel mondo dell’arte e della cultura. La società moderna non avrebbe più una direzione, non una sola almeno, e sarebbe meglio rappresentabile come un rizoma, per usare i termini di Deleuze e Guattari, o come un ipertesto talmente esteso in cui, anche nel migliore dei casi, l’aspirazione di un ordine non possa ambire che alla nostra limitata cerchia di contatti, di studi, di conoscenze. Non possa in conclusione che essere un ordine personale, soggettivo. Una visione collettiva sarebbe di conseguenza impossibile. Al massimo si potrebbe cercare di far convergere una somma di movimenti individuali da considerarsi altrimenti come rigorosamente casuali.

Ampliando il ragionamento alla società intera non credo sia difficile sostenere come oggi lo sviluppo sociale non sia guidato da nessun attore consapevole. La precarietà, la commercializzazione intima di ogni momento delle nostre vite, i movimenti politici, le crisi e le guerre persino, non sembrano essere totalmente controllabili da nessun soggetto particolare. Ieri il ruolo dell’intellettuale era quello di fungere da guida agli altri e per assurgere a questo ruolo egli doveva, in precedenza, essere riconosciuto dagli organismi sociali dediti alla riproduzione culturale. Oggi sia questa consapevolezza che gran parte della forza detenuta dalla struttura accademica sono andate perdute. E viene lecito domandarsi quale ruolo possano gli intellettuali assumere per poter nuovamente determinare un qualche senso al proprio agire. E a chi devono essi rinvolgersi per essere investiti di questo stesso ruolo? Riprendendo un pezzo di Andrea Inglese apparso su NI e che ben descrive la crisi del ruolo intellettuale possiamo ritrovare i due momenti di questa crisi:

“Nella storia di questa ‘perdita di potere’ (che è qualcosa di diverso della semplice perdita dell’aureola di cui parlava Baudelaire), le avanguardie, e la stessa nostra più recente neovanguardia, sono state degli episodi cruciali. Prendiamo quest’ultima. In essa, si avvertono due momenti: uno è quello di lucido disincanto nei confronti delle prerogative legate al ruolo di intellettuale-letterato. (‘Il «mestiere» del poeta adesso è quello di negare – mediante il proprio lavoro – quella situazione di privilegio che i poeti di ieri, facendo testamento, hanno lasciato in eredità ai poeti di oggi.’ In Poesia apoesia e poesia totale, di Adriano Spatola, apparso in “Quindici”, n. 16, 1969.) Il secondo momento, mi sembra legato a una sorta di non consumata volontà di potenza o, in termini più prosaici, a un’esigenza di riscatto. L’intellettuale-letterato si trova sospeso tra due universi, due disparate e ambigue clientele, la borghesia e il partito dei lavoratori. In nessuno dei due universi trova il proprio spazio più idoneo, né gli viene proposto di crearselo liberamente. L’intellettuale-letterato diventa avanguardista nel momento in cui si rende conto che nessuno, in realtà, chiede un suo contributo alla costruzione della società attraverso la sua opera letteraria. O meglio, i borghesi non gli chiedono nulla, perché sentono che i veri giochi si fanno altrove e grazie all’intelletuale-scienziato, l’unico che ormai veramente conta. All’intellettuale letterato il partito chiede ancora molto, ma per metterlo al servizio delle sue bizantine strategie culturali.”

Crisi, quella che descriviamo, che ha portato, come reazione alla precarietà di questi statuti, alla ricerca di una qualche nuova posizione in seno alla società, anche a costo di negarla totalmente, anche a costo di rendere il cambiamento stesso unico fine possibile. Cambiare per cambiare; cambiare per dimostrare di esserci ancora e per sbattere in faccia a tutti il proprio voler avere ancora un ruolo. Una volta terminato questo movimento, una volta teorizzata l’eversione per l’eversione, la fine un po’ anarchica di ogni preoccupazione sociale che non sia il destabilizzare le già fragili radici della poetica così come delle istituzioni, cosa resta?
Quale deve essere oggi il ruolo degli intellettuali e delle avanguardie, di coloro che sono davanti agli altri anche nell’uso di nuove tecnologie, di nuovi modelli? In una società che sembra non avere una direzione, o almeno non pare averne una soltanto, è teorizzabile una molteplicità d’avanguardie diverse, è teorizzabile una possibilità di modificare il corso delle nostre vite che non dipenda da una nuova tecnologia o da un cambiamento del tasso di sconto di una banca centrale? La sola via d’uscita preventivabile credo sia la costituzione, da parte degli artisti, di una nuova autorevolezza diretta tra loro e il proprio pubblico di riferimento. Autorevolezza diretta che sola può ridare senso anche al termine avanguardia, rimettendo in posizione avanzata l’artista in rapporto non all’intera società, ma semplicemente all’insieme dei prossimi che gli riconoscono questo ruolo all’interno di una determinata posizione del rizoma. La tecnologia digitale, se ben utilizzata, può favorire questo tipo di incontro.

L’artista potrebbe dunque costituire un legame diretto con il proprio pubblico, passando in tal modo da un ruolo negativo, dato dalla sfiducia che la mancanza di riconoscimento ufficiale ha creato, ad un ruolo positivo. Positivo perché, all’interno di una società dei piccoli numeri l’artista deve essere conscio che solo grazie al proprio lavoro e al riconoscimento di questo da parte del proprio pubblico diretto, non importa quanto esteso, egli potrà nuovamente fregiarsi del ruolo che ritiene suo. Una posizione di questo tipo credo che permetterebbe di superare i limiti incontrati storicamente dalle avanguardie artistiche nei confronti della società contemporanea. Questa posizione potrebbe ridare slancio a quell’idea dell’intellettuale come colui in grado di leggere il presente e preventivare mondi possibili, contribuendo al cambiamento invece di esserne semplice vittima o commentatore.
Non si tratta certo di un manifesto, ma di una linea base di discussione. Se vogliamo ricreare il ruolo per certe figure forse dovremmo partire da qui, dalla coscienza della progressiva perdita dell’autorialità riconosciuta dalle istituzioni sociali per concentrarci sul trittico creatore – opera – fruitore, che solo può continuare a giustificare l’esistenza di certi modelli espressivi.
Quale dunque il ruolo dell’autore, dei mezzi e del pubblico nella nuova « società digitale delle arti »? Come cercare di comprendere il processo d’emergenza di forme indipendenti di creazione e distribuzione in un mondo, come quello di Internet, sempre soggetto a cambiamenti inaspettati?

Nel 1962 usciva Opera Aperta di Umberto Eco. Pubblicazione che avrebbe provocato un’interminabile serie di discussioni e dischiuso, per la prima volta in maniera sistematica, una nuova strada per l’estetica e la poetica. Quello che gli artisti già facevano da tempo cominciava a divenire un paradigma epistemologico e così come il mondo perdeva l’apparente direzione in precedenza riconosciuta, lo stesso avveniva con la nozione di significato dell’opera d’arte. Da allora molte cose sono cambiate e dal concetto di contrattazione tipico della comunicazione umana e dai livelli di apertura che questo permette, sono nate le varie branche di una nuova scienza, quella semiotica. Indiscutibilmente di moda durante gli anni ruggenti dello strutturalismo, la semiotica ha conosciuto un grande sviluppo fino a conoscere la sua prima crisi di crescita. Oggi infatti, mentre i suoi strumenti sono ormai utilizzati in tutte le scienze umane, la disciplina madre, lasciata un poco da parte, vive una crisi di rinnovamento. Così, mentre gli studiosi di semiotica si presentano sempre meno baldanzosi a congressi e conferenze, il prodotto dei primi decenni di studio giunge persino ad insinuarsi all’interno del senso comune, contribuendo a modificare la percezione dell’arte e della comunicazione in maniera del tutto imprevista rispetto al passato.

Utilizzo proprio il termine di senso comune per mostrare l’abissale differenza che si potrebbe notare nel caso si avesse una discussione sull’arte con un passante di media cultura oggi rispetto anche ad un accademico degli anni ‘60. La pluralità delle interpretazioni possibili all’interno di un’opera infatti, la molteplicità dei piani di lettura è un qualcosa di ormai socialmente accettato che ha portato non poche modificazioni a tutti i livelli che entrano in contatto con la produzione, con la distribuzione e con il consumo di prodotti artistici. Alcuni tra i concetti maggiormente riformulati o in corso di modificazione sono quelli di “autorialità”, di “originalità”, di “contesto” che andrò qui di seguito a trattare brevemente. Il cambiamento culturale legato a questi termini non può che incidere profondamente e modificare alla base gli stessi concetti di opera d’arte e di artista.

Si è a lungo ritenuto che l’arte fosse tale a prescindere dal contesto di fruizione. Qualche tempo fa, un esperimento condotto dal Washington Post (ne trovate un lungo riassunto su La Repubblica) con la partecipazione di Joshua Bell ha dimostrato ancora una volta il contrario. In breve Bell, che attualmente è forse il più quotato violinista classico, è stato condotto a suonare per un’ora all’interno della stazione Enfant Plaza del metro della capitale federale americana. Il giovane violinista, si presenta vestito in maniera casual, si siede davanti ad un cestino dei rifiuti all’ingresso della stazione, prende in mano il suo Stradivari del valore di qualche milione di dollari e inizia ad eseguire un repertorio di grandi classici, partendo dalla Ciaccona, dalla Partita n.2 in Re Minore di Bach, uno dei più conosciuti e difficili brani per violino. Bell proseguirà interpretando brani di Schubert, Massenet, Brahms e se ne andrà dopo aver suonato per un’ora, dopo aver visto passare un migliaio di persone che, in gran parte, non hanno riconosciuto né lui né il suo talento e con 32 dollari di elemosina in tasca. All’interno di un frame non convenzionale l’opera d’arte non è stata in questo caso riconosciuta. Da questo e tanti altri esempi simili possiamo trarre la conclusione che il riconoscimento di un testo come opera d’arte non derivi esclusivamente dalle caratteristiche intrinseche all’opera, ma anche dal contesto culturale di fruizione. Un’autorità, un’indicazione, un soggetto che siano socialmente dedicati al riconoscimento e alla diffusione di quanto viene ritenuto artistico parrebbe di conseguenza necessario per darci quello statuto di fiducia e qualità che ci permette facilmente di etichettare una produzione come opera d’arte.

Eppure abbiamo descritto sopra la crisi che stanno vivendo le strutture socialmente dedicate a questo processo, delle quali, anche una volta riconosciuta la fallibilità e la mancanza di criteri oggettivi per riconoscere il valore artistico, continuiamo a sentire il bisogno. Questo contemporaneo processo di disgregazione e necessità crea automaticamente un bisogno che le vecchie strutture sociali non sembrano più in grado di colmare, rendendo necessario un nuovo modello di organizzazione che possa perpetuare il processo di framing necessario al riconoscimento e alla riproduzione del fenomeno artistico sociale.

La perdita dell’originalità dell’opera è un’altra delle misteriosamente recenti rivelazioni del consesso culturale ed estetico. Le opere, spesso, presentano un grado limitato di novità. Nonostante questo si è a lungo difesa una posizione assurdamente estremista secondo la quale un autore sarebbe un genio creatore capace di cogliere nell’infinito assoluto brandelli di verità, inattingibili altrimenti, e di mostrarli a tutti noi. Perché questa nozione, che chiamerò di originalità limitata, sia entrata a far parte delle discussioni dei più è stato necessario il passaggio dal mondo analogico a quello digitale.

Proprio questo passaggio ha definitivamente unito due universi che sembravano tremendamente distanti, quello degli oggetti e quello delle scritture. Questo ha provocato un inserirsi delle scritture all’interno degli oggetti e viceversa, creando tutta una sorta di strumenti ibridi ben descritti ad esempio all’interno di Le interfacce degli oggetti di scrittura di Alessando Zinna e sui quali si basano anche le mie attuali ricerche. L’unione dunque tra l’azione e il pensiero si è sviluppata lungo un nuovo asse che facilita in maniera incredibile il rimescolarsi dei linguaggi. La facilità d’accesso a tali tecnologie e la semplicità di utilizzo delle stesse ne spiega il rapido successo non solamente a livello degli artisti (che restano tuttavia avanguardisti per eccellenza nel campo), ma a livello, per la prima volta, popolare.

L’infinità di creazioni nate dalla modificazione di corpus esistenti, la mania dei mash-up, dei remix, delle autoproduzioni indipendenti ed ironiche che fanno il successo di ambienti digitali quali Myspace o Youtube ne sono lo specchio principale del successo. Ognuno oggi può ambire a divenire artista con uno sforzo minimo. Un computer è presente ormai in ogni casa del mondo occidentale e i software per tagliare, incollare, mescolare e rivoltare documenti digitali sono di facilissima utilizzazione. Il risultato è stato doppio. Da un lato abbiamo una produzione culturale immensamente più libertaria ed espansa rispetto al passato, essendo crollate tutte le principali barriere all’accesso, costituite dalla necessità di un poter fare e di un saper-fare principalmente manuale. Dall’altra abbiamo assistito, invece, ad un crollo verticale della qualità generale del prodotto artistico, proprio per via della mancata coscienza in tanti, di quanto stia dietro questo tipo di produzione. La maggior parte dei presunti artisti di oggi, manca del necessario bagaglio per svolgere questo ruolo con una qualche coscienza. Vedremo come, secondo il mio punto di vista, la rivoluzione digitale può, in gran parte, porre rimedio anche a questa difficoltà, se avvicinata con il giusto spirito critico.

L’esplosione dei contenuti presenti sul mondo digitale ha inoltre, e direi quasi ovviamente, mostrato tutti i limiti di un concetto che è stato stabilito per legge piuttosto che in base a criteri socialmente riconosciuti: l’autorialità. Stabilita grazie all’invenzione dei diritti d’autore l’autorialità, così come la maggior parte di noi è ancora abituata ad intenderla, è creazione abbastanza recente, tipicamente occidentale e relativamente ambigua. Il nuovo mondo sorto su nessuna terra che non sia quella in cui i server hanno luogo, mondo ancora abbastanza anarchico e anche per questo ricchissimo di spunti, non la riconosce e se ne burla a viso aperto nonostante i ripetuti interventi dei legislatori nazionali che cercano, finora con scarso successo, di regolamentarne la vita.

Il grande cambiamento che la società digitale ha apportato, anche nel mondo delle arti, è quello del passaggio da una società della carenza ad una società dell’abbondanza. All’interno del primo modello le risorse scarse vengono selezionate e gestite da un’apposita élite dedita alla bisogna che provvede poi a distribuirle. Una società dell’abbondanza salta direttamente questo passaggio e mette tutto sul tavolo del pubblico possibile. Nasce così la grande ed eminentemente nuova problematica per cui mai il nostro tavolo potrà contenere tutto quanto vi viene quotidianamente riversato sopra, rendendoci implicitamente inadeguati al nostro tempo, come intuito da Georg Simmel con innegabile lungimiranza già oltre un secolo fa.

Proprio questa ancora inusuale abbondanza, legata alla facilità della manipolazione del formato digitale, è la causa principale della perdita dell’autorialità. Da un lato è divenuto evidente come la marca dell’autorialità non sia altro che il saper costruire un percorso personale attraverso gli incontri susseguitisi all’interno della propria vita, un saper mettere un ordine, un saper tenere un filo conduttore all’interno della molteplicità del reale. Dall’altro ha creato l’opportunità di lavorare in maniera creativa sul prodotto altrui, che altro non è che la riproduzione in piccola scala del fenomeno precedente. Se nel primo caso, all’interno di un’opera di grande respiro, diviene praticamente impossibile riconoscere ogni fonte, diversamente incontrata durante il corso della nostra vita e che ci ha portato a creare quei precisi collegamenti e pensieri, nel secondo caso invece il problema si pone in maniera diretta e precisa: chi è l’autore, ad esempio, di una poesia riscritta ironicamente, ma fedelmente all’originale? Chi è l’autore di un video musicale a cui è stata cambiata la partitura sonora per ottenere un effetto straniante? Chi l’autore di un mash-up musicale? L’autore dell’opera originale oppure colui che l’ha creativamente distorta? E se rispondessimo che è il primo, cosa dovremmo pensare di Leopardi che citava, invertendo, le magnifiche e progressive parole del genero?

Anche qui credo dovremmo stabilire un criterio contrattuale in base al quale riconoscere un plagio da una nuova creazione, e questo limite, che sarà sempre e comunque oggetto di dibattito, non può che essere ambiguo, come del resto è sempre stato. L’unico metro di giudizio è il nuovo, il nuovo che un’opera sa apportare rispetto alla precedente. Se, socialmente, questo nuovo è riconosciuto, l’opera acquisisce un proprio valore di unicità e artisticità dovuti all’artista in questione.

L’assumere questa posizione mi porta inevitabilmente ad assumerne una seconda, indissolubilmente legata: un’opera non trasmette un significato preciso (con buona pace dell’autore), ma comunica piuttosto quali NON devono essere i suoi significati, lasciando una grande libertà all’interprete. La differenza tra opera d’arte e comunicazione quotidiana potrebbe anche essere ridotta a questo. La comunicazione giornaliera cerca di descrivere il mondo riducendo quanto espresso ad un solo significato plausibile, al fine di far passare un determinato messaggio, e solo quello, alla controparte. Al contrario l’opera d’arte, pur mantenendo dei forti vincoli riguardo quello che non vuole dire, lascia al proprio pubblico una libertà molto maggiore, lasciando che, all’interno delle interpretazioni non contraddette dal testo, ciascuno possa attualizzare quella che ritiene a lui più congeniale. L’opera d’arte contemporanea dunque non soltanto è aperta nei termini preventivati da Eco, ma è anche sostenuta solo debolmente dalla presenza della figura autoriale. Essa è dunque ancora più fragile che in passato dal punto di vista della rappresentatività di un pensiero particolare, e proprio per questo credo sia molto più vicina all’universalità del pubblico cui essa è proposta. Questo mi pare ancora più evidente proprio nel mondo digitale, in cui stabilire la provenienza prima di qualsiasi documento è estremamente complicato, in cui le modifiche si sovrappongono e spesso di sostituiscono alle precedenti, in cui restano solamente l’opera (sarebbe forse meglio dire “le opere”) e il loro pubblico.

Questo processo di perdita: perdita di direzione sociale, perdita del ruolo autoriale, perdita dell’originalità stessa dei prodotti, perdita, spesso, del fine ultimo della produzione artistica e purtroppo, delle esistenze, non è un qualcosa di obbligato, non deriva macchinalmente dalle modificazioni tecnologiche e sociali cui siamo sottoposti. Alla domanda che mi ero posto in principio, ovvero come teorizzare una possibilità di modificare il corso delle nostre vite, di come riprendere un ruolo attivo nel corso degli eventi, mi sento, in piccola parte, di poter dunque rispondere.

A livello artistico e intellettuale un ruolo attivo può essere recuperato passando dal rapporto tradizionale tra artista o intellettuale e pubblico ad un nuovo rapporto tra questi due poli. Tradizionalmente infatti questo rapporto è sempre stato mediato da strutture create appositamente. Strutture che si basavano su un rapporto di fiducia univoco da parte del pubblico nei confronti della struttura produttiva. Il “è vero, lo ha detto la televisione” per intenderci. Oggi credo si senta la necessità della creazione di un rapporto di fiducia reciproca, di un doppio patto fiduciario, come scriveva poco tempo Antonio Sofi pur in tutt’altro contesto. La frequentazione diretta tra l’artista e il proprio pubblico attivano un rapporto diverso rispetto a quello precedentemente instaurato tra il pubblico e gli organi sociali dediti alla riproduzione culturale. Un doppio patto fiduciario è più difficile da attivare rispetto alla fiducia che viene data per abitudine (spesso diamo fiducia per pagamento, il biglietto, un prezzo ci bastano per questo) al soggetto già socialmente riconosciuto, ma una volta attivato, proprio per via dello sforzo maggiore richiesto, è più forte. Più forte perché viene a legarsi, in maniera doppia ai contenuti e alla persona in questione, più forte perché si nutre di tutto il processo che è stato necessario all’attivazione, e che potremmo considerare alla stregua di una conversazione, di un dialogo che è sempre base necessaria.

In un momento storico dunque, in cui la riproduzione materiale del sapere non è più legata a grandi enti, né per motivi economici (la produzione seriale ha ormai costi equiparabili alla produzione on demand) né per motivi fiduciari, credo sia giunto il momento che sia gli intellettuali, sia gli artisti, prendano maggiormente in mano la propria produzione, distribuendola il più possibile in maniera autonoma e mantenendo e cercando il dialogo con il proprio pubblico di riferimento. In un momento storico in cui le istituzioni sociali sono in crisi, nuove istituzioni hanno la possibilità di nascere e di guadagnarsi sul campo la propria rispettabilità, andando a colmare quelle lacune che le prime non riescono più a scorgere, perse alla ricerca della citazione aggiuntiva, dell’utile ad ogni costo.

Non si tratta di mettersi a fare proclami utopici o di lanciare crociate contro l’establishment culturale, si tratta semplicemente di prendere atto che una comunità come Nazione Indiana, o chi al suo posto, potrebbe produrre direttamente quanto i suoi autori pubblicano in mille altri luoghi, potrebbe gestire autonomamente la propria produzione, non semplicemente in versione digitale, ma anche nel tradizionale formato cartaceo. Le capacità intellettive e manuali necessarie sarebbero certamente presenti e se qualcuno potrebbe rivestire la figura di editor, qualcuno avrebbe le capacità per esserne l’illustratore e via dicendo. Ogni scusa di impedimento da parte del mercato verrebbe meno e la maggior spesa del prodotto finale sarebbe compensata da un lato dalla produzione secondo le richieste (non produrre più di quanto si vende effettivamente, eliminando o quasi l’inquietante termine di magazzino) e dall’altro dalla non necessità di produrre un utile il più alto possibile. Ad ogni costo.

Sono fermamente convinto che il dialogo che precederebbe, che sarebbe alla base della stessa produzione culturale, creerebbe le condizioni necessarie al successo del prodotto e che questo modello, intendiamoci complementare e non sostitutivo di quello editoriale classico, dovrebbe in breve tempo essere preso in considerazione anche dai distributori tradizionali e finirebbe in libreria, nel negozio di cd, nelle esposizioni, esattamente come succede attraverso il metodo convenzionale.

L’autore che si ritrova a produrre nel mondo digitale delle arti deve quindi fare professione di umiltà, ammettendo chiaramente di non sapere, di non poter gestire quanto quotidianamente gli piove addosso dal mondo, ma continuando a tracciare ipotesi e vie possibili per la ricerca dell’essere, continuando a saggiarlo, cercando di coglierne le aperture senza sosta.

L’autore che si ritrova a produrre nel mondo digitale delle arti deve quindi ricostituire quel contatto con il proprio pubblico, farlo in maniera diretta e personale, cercando nel dialogo la soluzione alla crisi di affidabilità che la società gli pone davanti. E deve farlo perché se crea, crea sempre per qualcuno e ogni atto non può che fare parte di questo.

L’autore che si ritrova a produrre nel mondo digitale delle arti deve quindi porsi il fondamento etico della ricerca per ridare un senso al proprio ruolo e sapere che esso non prenderà forma in base al riconoscimento di qualche accademia, ma più semplicemente in base al riconoscimento dei propri lettori.

Oggi un intellettuale, un artista non sono più tali in quanto pubblicati o esposti da qualcuno di noto proprio perché queste istituzioni ormai mancano di senso, un intellettuale o un artista divengono tali quando qualcuno comincia a riconoscerli in questo ruolo, al di là del numero più o meno espanso di chi lo pensa. Questo deve rappresentare il passaggio dalla società unidirezionale dei grandi a quella rizomatica dei piccoli numeri, e non credo si tratti tanto di volontà progettuale quanto ormai, semplicemente, di riconoscimento di uno stato di fatto. Le tecnologie digitali, oltre ad esserne causa, possono anche rivelarsi utile strumento di gestione di questo nuovo sistema”.

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