In seguito al discorso scaturito con il post sulla prederminazione del linguaggio scientifico posto, per proseguire la discussione, questo intervento di Marcella, parlando con la quale l’argomento era stato inizialmente toccato. Altri problemi da affrontare, altri nervi scoperti, dall’uso del linguaggio, al passaggio all’ambito collettivo del sapere tecnico:

“Alla psicologia in quanto disciplina si affianca ormai da una decina d’anni quella che potremmo definire come psicologia del passante. Ossia, l’uso nel linguaggio quotidiano di termini psicologici.

Dalla prospettiva dello psicologo, i rischi insiti nel fenomeno sono evidenti: i termini psicologici (depressione etc.) una volta applicati a situazioni molto più ‘leggere’ di quelle cui fanno riferimento in contesto terapeutico, li cristallizzano in una definizione che di per se stessa può rendere la problematica più pesante e difficile da risolvere.

Da una parte abbiamo un disagio, dall’altra una patologia, ma quando il disagio prende il nome della patologia ne acquisisce alcune caratteristiche: innanzitutto, l’impossibilità di risolvere il problema senza un intervento esterno.

La persona ad esempio che si sente demoralizzata -magari con ottime ragioni- prova un sentimento: nel momento in cui essa si autodefinisce depressa, questo sentimento diventa malattia, al di fuori della capacità di gestione dell’individuo. Quello che si rischia dunque è un effetto di patologizzazione dei disagi più quotidiani.
In questa lettura si ritiene generalmente però che la psicologia clinica -operata dai terapeuti- abbia altre possibilità.

Che possa effettivamente dare più strumenti di analisi della propria situazione alle persone che presentano un disagio ma non una patologia, e perlomeno un ancoraggio a quelle invece più disturbate.

Credo che questo sia tutt’ora più che valido per quanto riguarda patologie gravi.

Ciò cui sto assistendo in questi ultimi anno però è che persone con molti strumenti – giovani, che provengono da famiglie ed hanno rapporti di coppia assolutamente non patogeni- una volta fatto riferimento al terapeuta hanno ristretto in misura sensibile la propria capacità prospettica.

La visione d’insieme del rapporto e della propria vita spesso si perde a favore del ‘problema’; la persona si trasforma in un malato, e si crea una dipendenza dal terapeuta, secondo le stesse modalità del singolo che utilizza a sproposito termini e frame psicologici per definire la propria situazione.

Dato che si parla però di terapie che avrebbero come finalità un riequilibrio e miglioramento delle relazioni umane dell’individuo, quello che si determina è un grave effetto-paradosso.

Si possono analizzare in particolare alcune costanti che caratterizzano e forse spiegano il fenomeno. Credo innanzitutto che un fattore importante sia la prospettiva più o meno ampia che la persona si costruisce rispetto ai legami per sé rilevanti.

Molto più che la psicologia del senso comune, la terapia può correre il rischio a mio parere di portare le persone (quando non affette da patologie gravi che già minavano i rapporto umani) ad una prospettiva idiocentrica.

Nel focalizzarsi sul Sé e sui propri bisogni, si può innescare inoltre una sorta di gerarchizzazione: colui che si relaziona col terapeuta è posto su un piano di giudizio superiore rispetto alle persone che lo circondano, poiché chi lo circonda è oggetto del dialogo con il terapeuta, mentre egli/ella ne rimane in ogni caso soggetto agente.

Questa prospettiva dall’alto rischia di diventare un filtro a relazioni effettivamente ‘sane’ nell’accezione psicologica del termine, ossia mobili –capaci di trasformarsi in circostanze diverse.

Per capirci, una relazione psicologicamente considerata come ‘sana’ è quella in cui a seconda della fase di vita, dell’argomento di discussione etc… il ruolo di supporto (one-up) e quello di supportato (one-down), sono alternativamente ricoperti dai due interlocutori. Patologico è invece un equilibrio relazionale fisso, in un cui una persona assume in tutti i casi e contesti il ruolo up, e l’altra quello down.

Rimane aperto dunque l’interrogativo, se un’analisi terapeutica possa condurre le persone ad irrigidirsi su un ruolo ‘one up’ –di colui che sa come si sta evolvendo la relazione, a fronte del proprio interlocutore inconsapevole, che semplicemente vive la relazione con il suo portato emozionale.

E se dunque possa inficiare, più che favorire, un percorso verso modalità relazionali ‘sane’.
Gli esiti di questa riflessione potrebbero spingere a dar maggiore respiro a tecniche terapeutiche focalizzate più sulle relazioni in sé che sul singolo nella relazione, come quelle nate da teorie sistemiche, ma forse un margine di possibilità di rinnovamento rimane anche per le tecniche psicologiche centrate prettamente sul singolo. Resta da vedere come”.

  1. Di Blas L., (2002) Che cos’è la personalità, Roma : Carocci editore.
  1. Watzlavick P., Beavin J. H., Jackson D. D., (1971) Pragmatica della comunicazione umana, Roma: Astrolabio.

One thought on “Il Sé astratto. Psicoterapia.”

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