Non mi stanco mai di ripetere come per capire il presente e il futuro spesso basta rivolgersi verso il passato e cercare una qualche risposta in quei problemi già trattati, ma chissà come dimenticati. L’abitudine all’utilizzo di categorie già esistenti quindi risponde in pieno a questa potenzialità dell’uomo, alla sua capacità unica e al suo bisogno di trasmettere quello che è stato. Credo sia un processo che, se usato con elasticità possa permettere enormi progressi. Il problema è quando mi accorgo che tutti coloro che vedono novità ovunque e cambi epocali ogni due giorni alla fine tornano sempre più indietro rispetto a me. La discussione partita dal mio precedente post su Granieri e ripresa da Gattostanco, si è ora allargata anche a Carla. E siamo tornati a Gramsci.

Ma andiamo con ordine…

Gattostanco interviene con una spassionata difesa del libro di Granieri, senza averlo letto, come egli stesso dice senza pretese argomentative e forse un poco anche non sapendo nulla di me, come forse è giusto, ma a volte no.

I punti che vorrei trattare in risposta a quanto detto sono tre:
Il concetto di cambiamento storico, la problematica del senso comune davanti ai media e il problema del digital divide come appare nei post scambiati tra Carla e Gattostanco.

Il primo problema da affrontare è quello di poter mettere sul medesimo piano le condizioni storiche che portano allo sviluppo. Per fare questo è necessario cercare di entrare nell’ottica del tempo oggetto di studio e non restare nell’oggi per analizzare il passato. Rifiuto in pieno la tesi personalistica della storia, ma non solo, rifiuto anche l’idea che una persona, per quante qualità possa avere, abbia avuto il privilegio di cambiare il mondo. Questo perché si potranno sempre trovare delle condizioni che erano causa necessaria allo sviluppo nel senso che ha preso. L’idea del cambiamento legato ad una persona, ad una battaglia, ad un evento specifico credo siano da relegare in un cassetto destinato a prendere polvere. Cercherò di spiegare questa posizione confutando gli esempi presi da Gattostanco; Alessandro Magno e Bill Gates.

Cosa sarebbe successo se i macedoni non avessero codificato la loro famosa falange prima della nascita di Alessandro? Cosa sarebbe successo se le città greche avessero ancora avuto la forza per opporsi ai barbari del nord? Cosa sarebbe successo se l’impero persiano non fosse già una struttura pericolante al momento dell’invasione? Sarebbe successo che un pur bravo generale non sarebbe andato lontano, che anzi, probabilmente non sarebbe stato generale e sarebbe rimasto a guardare le sue pecore pascolare per le rocciose vallate macedoni. Il caro signor Gates invece se non fosse nato negli Stati Uniti d’America, se non avesse avuto la fortuna di incontrare i suoi compagni di strada e di vivere in una cultura in cui il genio è prerogativa di chi si occupa di scienze dure, sarebbe probabilmente rimasto un ragazzino dagli improbabili occhialoni preso in giro dai compagni di college, come nei migliori film USA che si rispettino.

Il personalismo va bandito dalla storia proprio perché ognuno di noi si realizza in un contesto che non può essere eliminato e che è comune a tutti. Se non fosse stato Gates, sarebbe stato Torvald, se non fosse stato Alessandro sarebbe stato Pirro e così via. La storia utilizza le personalità per divenire atto da potenza, ma non è legata ad esse. Siamo noi che vogliamo personalizzarla e lo facciamo concentrandoci su quelle dal maggior spicco. Ma eliminare le altre, o considerare qualcuno capace di cambiare il mondo da sé mi pare inutile. Il mondo sarebbe cambiato comunque perché lo fa continuamente sotto una quantità di influssi il cui numero non è neppure calcolabile. Lasciare da parte questa evidenza mi pare quantomeno colpevole. La rete in questo caso può interconnettere, può aumentare i flussi, può dare maggiori disponibilità a tutti, ma non cambia la tipologia evolutiva del processo.

Per quanto riguarda invece i media trovo scarsamente difendibile la posizione espressa da Gattostanco, o meglio, non riesco proprio a trovare la posizione che vuole assumere al di là del sentito dire e del senso comune. Dopo un certo numero di anni passato a studiare media e nuovi media come unico obiettivo della giornata, mi stupisco ora di trovarmi talmente miope da non vedere come i media rendano passivi i propri spettatori. Consiglio quindi a tutti coloro che volessero dare uno sguardo introduttivo al problema a leggere il McQuail (McQuail, D. (2003) Le comunicazioni di massa, Bologna: Il Mulino), ottimo manuale di comunicazione di massa per principianti. Qui troverete tutte le teorie ben espresse e riassunte. Da quelle degli anni ’40 in cui si credeva che ai messaggi dei media seguisse una reazione ben definita da parte del pubblico, sino a quelle moderne, in cui l’espressione di significato tra media e pubblico è una lotta incredibile tra avanzate e ritirate da parte dei due poli comunicanti che agiscono con una libertà che non ci saremmo aspettati in precedenza.

Qui mi permetto di ribadire quanto detto, ma più che le capacità dialettiche, manca il tempo per far vedere tutto a chi non lo vede, anche perché potrebbe ben cercarlo su un’infinità di manuali, di libri come quello che ho consigliato sopra, oppure anche semplicemente si google, magari tra i lavori che ho pubblicato in passato e all’interno dei quali mi sono già occupato di agenda setting, di libertà di interpretazione di fronte ai media e problemi similari. Il problema non è quindi solamente avere accesso alle informazioni, ma anche sapere come cercarle, sentire la necessità di farlo e utilizzare quindi davvero le possibilità che i nuovi media ci offrono. Il pubblico dei nuovi media spesso è più simile a quello dei vecchi di quanto egli stesso pensi, ma questo dipende da caratteristiche in gran parte personali, come questo stesso caso dimostra.

Come ultimo punto passo al digital divide, sul quale credo ci sia stata la caduta (sia metodologica, se così possiamo dire, che di stile) più grave del post al quale sto rispondendo. Qui infatti sembra quasi che Gattostanco sostenga un’oligarchia tecnologica, all’interno della quale chi ha l’accesso deve preoccuparsi di mantenere lo status quo, senza pensare troppo alla democrazia perché si sa, questa porterebbe a difficoltà di gestione che potrebbero indurre ad esempio alle censura. Meglio pochi ma buoni, che tanti ma limitati si dice. Al di là dell’aberrazione di questo pensiero, elitista e antidemocratico credo che il problema sia proprio quello di sviluppare la democrazia grazie e all’interno delle nuove tecnologie perché senza di essa non si marcherà mai la differenza col passato e si tornerebbe al ruolo elitista dell’intellettuale gramsciano rivisitato in chiave internettiana.

Non è la tecnologia che fa la differenza (come tutti concordiamo), ma l’uso. E se è l’uso che rende tanto speciale la rete, è proprio perché tutti possiamo usarla in un certo modo e se l’accesso si generalizzasse avremmo il massimo dei vantaggi. Se ciò non avverrà la rete sarà una fotocopia della letteratura italiana di oggi che, al di là di ogni ragionevole dubbio, è asfittica se non morta proprio per quell’analfabetismo letterario che ci caratterizza, per quel mancare attorno agli sforzi di pochi, di una massa capace di comprendere, sostenere e spingere al cambiamento e alla novità. Mai esempio fu più giusto, anche se al contrario delle idee dell’autore.

Ribadisco quindi in pieno la necessità di una spinta democratica all’accesso alla rete come preoccupazione primaria, unitamente allo sviluppo e alla gestione democratica. Le due cose non possono essere separate pena la nascita di guru tecnologici che ricadranno negli errori dei futurologi o pena l’ingabbiamento della rete stessa. Se tutto dipende dalla comunità non riesco a capire come si faccia a volerne già fare una comunità chiusa ancora prima che questa abbia raggiunto la gente comune, ancora prima che questa si sia formata.

Sembra quasi che alle vecchie elite si voglia sostituire in ipotesi una nuova oligarchia tecnocratica, verso la quale sono fermamente, incondizionatamente contrario. L’attenzione verso questo tipo di devianza deve restare alta e la rete può aiutare anche a questo, a correggere gli errori di valutazione, a smussare le posizioni, a riflettere insieme. A patto, ovviamente, di lasciare da parte posizioni e idee a priori insieme a utopie tecnologiche e vecchi spauracchi antidemocratici.

Update pomeriggio 20/7

Leggo ora la risposta di Gattostanco a Carla, la posizione espressa viene un poco mitigata, ma trovo sempre che sia erronea, e per il paragone tra la rete e la televisione, sbagliata nel metodo e nel merito (la televisione, anche quella italiana, è tutt’altro che quello che censura etc. etc., se si sa leggerla e gestirla) e per la credenza secondo cui noi possiamo sapere a priori cosa sia giusto e cosa sbagliato. In base a quest’ultimo assunto dovremmo prima difendere la rete e poi cercare di allargarla.

Una minoranza per quanto aggregata e influente resterà tale se non cerca di convergere verso il resto della società, non può inoltre estraniarsi dai settori altri, pena il decadimento; lo scambio e la comunicazione sono un obbligo.

Invito infine a dubitare da chi è disposto a restringere il campo dei diritti di tutti per difendere quelli (per quanto importanti) di qualcuno. Questo è sempre il primo passo verso la fine della libertà, dell’uguaglianza, dei diritti inalienabili delle persone.

Il mondo umano in quanto sociale ha sempre funzionato a reti, ma ora che ne abbiamo una potenzialmente migliore è come se il nuovo slogan diventasse… Tutte le reti sono uguali tra loro, ma alcune sono più uguali delle altre.

E mi perdoni Orwell, ma dall’utopia al dominio forzato spesso la strada è più breve ed ingenua di quanto possa apparire.

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