Gian Antonio Stella, sul Corriere di oggi presenta un’ennesima volta lo stato pietoso della ricerca inItalia.

Ne riprendo solo una parte.

Vi prego di fare attenzione all’età media dei ricercatori e dei professori, al loro numero e vi invito a fare due conti sulla cifra persa ogni anno considerando 500.000 euro come spesa per formare fino alla conclusione di un dottorato di ricerca una singola persona.

Ah, notare anche che circa un terzo dei ricercatori under30 al Cnrs francese è italiano. Questo significa che forniamo circa un terzo del potenziale di ricerca dei nostri vicini d’oltralpe. Non sarebbe il caso che cominciassero direttamente a finanziarci in Italia se poi diamo a loro la paternità delle pubblicazioni? Almeno ci risparmiamo il viaggio continuo tra i due paesi…

 

Se i professori ordinari in cattedra con meno di 35 anni sono 9 (nove!) su 18.651, cioè lo 0,05 (zero virgola zero cinque) per cento contro il 16% in Gran Bretagna, il 7,3% in America, l’11,6% in Francia (dove al contrario i docenti con più di 65 anni, che da noi sono il 30,3%, scendono rispettivamente all’1%, al 5,4% e all’1,3%), anche nella fascia dei ricercatori il panorama è sconfortante. Il 52,6% dei 21.639 addetti italiani ottiene il titolo di dottore di ricerca tra i 30 e i 34 anni, uno su tre accede alla carriera verso i 38 e l’età media è di 46. Per non parlare di realtà come il Cnr. Dove, come denunciava mesi fa il Corriere, 32 su 107 dei direttori (o facenti funzione) di istituto hanno più di 67 anni (uno passa l’ottantina), l’età più frequente è 68 anni e solo 14 stanno sotto i 55. Di più: una trentina sono allo stesso tempo docenti a tempo pieno in qualche ateneo e direttori a tempo pieno (prodigi dell’ubiquità) al Cnr. Di più ancora: oltre la metà occupano la posizione da più di dieci anni e diversi addirittura da più di venti. Il tutto in un contesto nerissimo. Su mille occupati, quelli che lavorano nella ricerca scientifica sono circa il 6% in Francia e in Germania, il 5% nel Regno Unito, il 6% nella media europea, il 9,5% negli Stati Uniti, il 10% in Giappone, il 7% nei Paesi dell’Ocse e il 2,8% in Italia.

In termini assoluati, stando ai dati del Ministero dell’Università e della Ricerca, abbiamo 70 mila persone impegnate sul fronte della ricerca in Italia contro le 160 mila in Francia, 240 mila in Germania, 150 mila in Gran Bretagna, un milione e 200 mila negli States, 650 mila in Giappone. C’è poi da meravigliarsi se, come ha denunciato giorni fa il direttore della Normale di Pisa Salvatore Settis, «al Cnrs, il Cnr francese, quasi un terzo dei ricercatori sotto i 30 anni è italiano» perché «noi li formiamo e loro se ne vanno»? Costa almeno mezzo milione di euro formare, con almeno 21 anni di studio dalle elementari al perfezionamento, un dottore di ricerca. Un investimento massiccio. Sul quale uno Stato serio, consapevole di quanto sia vitale per il proprio futuro, dovrebbe scommettere. Macché. Spiega una ricerca di Giovanni Peri sulla base di dati della Eurostat Force Labor Survey, che «paragonando la percentuale di laureati italiani che lavorano all’estero con la percentuale di laureati stranieri che lavorano in Italia l’anomalia del caso italiano è evidente ». Germania, Francia o Regno Unito, per non dire degli Usa, «hanno ben più laureati stranieri nel loro Paese che laureati emigrati all’estero». Noi no: «La percentuale di laureati emigrati è 7 volte maggiore di quella di laureati stranieri presenti nel nostro Paese».

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