La brusca frenata è solo una scusa come un’altra per alzare la testa dal libro, oramai. Risollevare lo sguardo, far nuovamente emergere dal buio qualche vicino. Un qualche viso almeno tra tutti quelli sommariamente squadrati salendo.

Appena il tempo di riprendersi, di lasciare la Campania natia di uno scrittore di cui non riesco a fissare il nome, e ritrovarsi a fare i conti con il nero su bianco di queste pagine lievemente illuminate dalle luci di emergenza. Con questo libro che ora sento diverso, quasi avesse acquistato peso riducendosi al suo aspetto tattile, al rumore di poche pagine che scorrono frusciando sotto una luce inattesa.

Il viso del turista di fronte, i suoi occhiali, la lega in metallo. La mano di lui corre sul ginocchio di lei, distraendola per qualche istante dal suo guardare sistematicamente prima il soffitto e poi il neon sul muro fuori dal vetro. E quel piede che batte sul suolo da qualche parte in fondo al vagone, con il suo ritmo che potrebbe essere nervoso come quello di qualcuno in ritardo, che potrebbe essere ansioso e claustrofobico, ma che ci fa sorridere – lo capisco nello sguardo che scambio con la ragazza appoggiata alla porta –nel suo prendere le misure di questi momenti.

La pazienza di questi secondi in cui resta solo il tessuto delle sedie, il metallo del poggiatesta e l’adesivo delle fermate di questa linea da esplorare. Questi momenti in cui nessuno ha il coraggio, o forse mentre tutti abbiamo il rispetto di non fermare gli occhi sugli altri. Occhi così vicini mentre aspettiamo quel rumore indefinito ma certo, e quella voce sempre diversa, ma da cui si aspetta la solita frase: “Veuillez patienter quelques instants”, prima che torni il rumore degli accumulatori.

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