Avevo cominciato a parlarne qui qualche giorno fa. Non credo sia lecito continuare a fare a meno di una più profonda e accurata analisi culturale per comprendere la crisi della sinistra e un certo cambiamento di mentalità della destra italiana.

Dopo l’estremamente interessante intervento sul recupero e sulla relettura di Gramsci in una chiave che sarebbe eufemistico definire “inattesa”, credo sia possibile identificare un ulteriore elemento di riflessione in una recente iniziativa: lo Sciopero dell’autore. Proprio su questa iniziativa si è sviluppato negli ultimi giorni un ampio e appassionante dibattito su Nazione Indiana.

Senza mettermi a  ripercorrere i chilometrici e intensi commenti che si sono susseguiti nelle ultime ore, mi permetto di riprendere qui tre punti che credo siano emersi nel corso della discussione e che restano, a mio modesto parere, le chiavi di volta dell’intera riflessione.

  • Ritengo sia un errore confondere politica e politica culturale. E’ un errore abbastanza comune quello di confondere l’operato politico di Berlusconi con il berlusconismo, o l’operato culturale di Veltroni col veltronismo. Sicuramente in Italia la politica culturale è  in crisi da anni, questo per una serie di mancanze (o forse peggio, di volontà) che sono comuni alla destra come alla sinistra, che si sono espresse unicamente tramite la leva dei finanziamenti, senza promuovere alcun rinnovamento all’interno di un panorama culturale già asfittico. Anche se tra questi due elementi esiste un rapporto di filiazione reciproco quanto evidente, è bene non confonderli tra loro pena l’indecifrabilità dell’intera riflessione che non permette, in fondo, una loro sovrapponibilità.
  • Occorrerebbe ridinamizzare il sistema culturale italiano. Sono contrario all’idea di uno sciopero (sia esso globale o parziale) che non ponga, ancora prima della propria pars destruens, una proposta di rinnovamento in primo piano. Quello di cui il paese ha bisogno, a livello culturale, è la moltiplicazione dei supporti, degli eventi e del contatto tra gli autori e il pubblico. Questo mentre in Italia si finisce troppo spesso a  criticare il sistema quando esso non ci risulta accessibile e, in realtà, non desiderando altro che potervi infine avere accesso. Si parla tanto di esclusione delle realtà più innovative dal sistema mediatico mainstream, si parla tanto di controllo e gestione politica senza che per questo vedano veramente la luce iniziative capaci di sfrutttare le nuove tecnologie, o semplicemente il caro vecchio passaparola per proporre, in maniera umile e indipendente, un progetto di rinnovamento. Resto fermamente convinto che nel caso esso apparisse e sapesse proporsi con forza, il pubblico non mancherebbe all’appello, costringendo l’establishment attuale a scendere a patti, o perlomento a riposizionarsi di fronte ad un panorama un po’ meno mummificato.
  • Direttamente legata a questa seconda riflessione è la mia terza. Al fine di poter elaborare nuove modalità indipendenti o innovanti di gestione della cultura, l’autore dovrebbe abbandonare quel suo ruolo aureolato e immacolato che gli ha sempre riservato la tradizione umanistica italiana. L’Italia ha forse più bisogno di bravi operatori culturali oggi rispetto a dei bravi autori. Ha bisogno di soggetti che sappiano fungere da collegamento, che sappiano proporre e sporcarsi le mani non solamente per portare il proprio messaggio ad un lettore, ma anche per portare quello altrui, per costruire un quadro d’insieme capace, legando le differenti proposte, di essere riconosciuto come utile e coerente dalla maggior parte della popolazione.

Queste, esplicitate in malo modo e in qualche frettolosa riga, credo siano  le prime riflessioni cui dovremmo dedicarci per poter riprendere in mano le redini di un ragionamento complesso sulla situazione culturale del nostro paese e sulle vie d’uscita privilegiate dalla crisi in cui esso si trova e che continua a costituire il nostro unico  punto  di accordo comune.

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