Eccomi alla fine a commentare il nuovo libro di Giuseppe Granieri, La società digitale, comprato e letto la settimana passata. L’impressione generale è buona, il metodo, come del resto avevo già detto del suo precedente lavoro, non molto. La sensazione finale resta purtroppo quella del dubbio.All’interno di queste 190 agili pagine Granieri descrive la propria visione della società digitale di oggi e le proprie prospettive per domani. Prima attraverso una descrizione dei metodi, poi attraverso una descrizione di cosa cambia nella nostra società e nella nostra vita quotidiana.

Siccome sul tema di fondo sono d’accordo e credo che buona parte delle prospettive proposte siano frutto di un ottimo lavoro, mi concentrerò su quello che proprio non riesce a convincermi.

In primo luogo sono assolutamente discorde a proporre una separazione netta tra ieri e oggi riguardo il cambiamento. Non credo sia assolutamente vero che oggi la rivoluzione avvenga dal basso mentre in passato avveniva dall’alto. Credo che questo punto sia frutto di una visione molto poco attenta della storia in cui le menti storiche (Colombo, Einstein) e i grandi mezzi hanno cambiato il mondo da soli. Piuttosto se il mondo è cambiato, è successo perché questi personaggi o questi poteri erano nel posto giusto al momento giusto e mancava solo la spallata finale per cambiare il tutto. Il grosso del lavoro veniva anche allora dal basso, anche se non ricordato. Giusto per dare un esempio, Colombo non sarebbe mai partito se non ci fosse stato il giusto contesto socioculturale, e se non fosse partito lui, sarebbe presto stato qualcun’altro. Einstein per di più, veniva dopo una serie di scoperte, da parte di scienziati, anche poco noti, che avevano portato a due passi dalla relatività ed il mondo aveva una situazione tale da poterla accettare. La credenza che il mondo sia fino ad oggi cambiato per merito di qualche re o di qualche grande mente non credo debba nemmeno sfiorare il nostro pensiero. La storia è una produzione collettiva che solo per ragioni di semplicità viene ridotta a pochi nomi.

Questo errore di fondo ed altri similari mi sembrano quasi voler marcare una differenza eccessiva tra ieri e domani, quasi a voler sostenere ad ogni costo la novità delle categorie utilizzate in questa rivoluzione digitale quando, secondo me, le categorie sono cambiate sì, ma a tratti, con difficoltà, e la maggior parte restano indubitabilmente comuni. Capisco sia più facile sostenere che oggi è tutto più nuovo, più bello e più collettivo, ma non dobbiamo per questo recedere da un rigore scientifico che è necessario per proseguire ed avanzare.

In secondo luogo continuo a non condividere l’amore di Granieri per Noelle-Neuman e per la sua spirale del silenzio. Questa teoria, legata a quella dell’agenda setting permette all’autore di sostenere che i media in qualche modo gestiscano il proprio pubblico. Quasi che essi avessero un potere che non entra in relazione con gli spettatori, ma che serva a soggiogarli, a renderli passivi gestendone le velleità informative. Secondo quest’ottica quindi la rivoluzione digitale restituirebbe libertà alla comunità degli spettatori, dandole molte possibilità in più.

In questo caso, di nuovo, mi sento di condividere solo a metà quanto detto nel libro, perché i miei studi mi hanno portato a sostenere una libertà dei lettori di fronte ad ogni media, e se sostengo a mia volta che la rete dia maggiore libertà al pubblico, non esito a dire allo stesso tempo, che non c’è alcuno scarto tra i diversi sistemi. Semplicemente il secondo offre maggiori possibilità, rispetto a quelle minori e spesso non sfruttate dei primi, ma non rispondenti a una nuova logica.

Un altro punto dubbio che attraversa le pagine del libro è indubbiamente il pesante lato utopico di questa fantomatica rete. Possibile che non ci siano grossi dubbi sul futuro della società digitale, possibile che sia tutto rosa e fiori? Il vecchio cultural divide che ora diviene digital divide ce lo siamo scordati? Che fine fanno tutti gli esclusi dalle connessioni a banda larga? Che fine fanno tutti gli analfabeti informatici? Che fine fanno tutti coloro cui i governi bloccano interamente o parzialmente la rete?

Sembra quasi che rose e fiori fioriranno da sé perché così deve essere, mentre io continuo a sostenere che tutto ciò che Granieri descrive nel suo libro non sia altro che l’espressione di concetti già esistenti ed utilizzati che, grazie alla rete, hanno trovato il loro ideale processo di sviluppo, e hanno di conseguenza preso velocità. Il cambiamento epocale non c’è, c’è piuttosto una veloce evoluzione, ma senza rottura come sempre avviene nella storia dell’uomo e come mai vogliamo ammettere. E l’evoluzione non avverrà autonomamente perché così deve essere, ma avverrà se resta alta l’attenzione e la volontà di una cambiamento positivo.

La rete non creerà mai una società migliore, perché altro non è se un nuovo sviluppo della nostra attuale società. Essa è il portare all’estremo la società di oggi, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti e di conseguenza ci offre grandi opportunità e altrettanti pericoli, ma la divisione fatta nel libro tra le due identità (classica e digitale), tra le due cittadinanze, che dovrebbero coesistere e vedere chi possiede solo quella classica in svantaggio, quella proprio non posso apprezzarla. La cittadinanza digitale è un surplus di quella classica, ne è evoluzione e non è finalistica. Il maggiore problema che dovremo affrontare ora è quello dell’inclusione di cui nel libro non si fa neppure cenno.

Nonostante tutte le belle idee espresse dunque, e pur condividendo il succo di quanto si dice non riesco a non far rimarcare alcuni errori metodologici che falsano il risultato. La conclusione non mi pare così scontata e credo che un buon libro di dubbi sarebbe stato molto più utile di un libro di risposte.

Non ci serve oggi una nuova Utopia, quanto piuttosto una continua riflessione critica sul nostro sviluppo, sul senso del nostro sviluppo e sulla direzione che vogliamo dargli. E questa è stata un’ottima occasione mancata.

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