Prendendo spunto da una frase scritta da Giuliana in un commento al mio ultimo post avanguardista ripropongo una domanda usata e strausata, quasi dalla disarmante banalità.

Davvero oggi non c’è più spazio per i grandi movimenti di pensiero?

Bisognerebbe dapprima cercare di comprendere cosa, in passato, spingesse o semplicemente permettesse movimenti di pensiero assai ampi. Potremmo dire che essi si costituivano in opposizione a istituzioni o a forme di pensiero dominanti. Potremmo dire che essi si costituivano nei momenti in cui la società era ormai pronta ad un grande cambiamento che le istutuzioni non erano ancora riuscite a recepire.

In quei casi succedeva che persone dotate di intraprendenza e di ottime qualità trovavano il modo di esprimere forme nuove, di riunirsi tra loro per instaurare dialoghi di lunga durata che erano la vera scintilla in grado di far scoccare il cambiamento. Spesso, scendendo nel dettaglio, possiamo notare come i grandi movimenti di pensiero siano in realtà cinque o sei persone sedute ad un bar. Come spiegare allora la presunta impossibilità che questi avvengano oggigiorno? Bar ce ne sono ancora in abbondanza. Il tempo libero dovrebbe essere maggiore rispetto ai secoli passati. La cultura distribuita dovrebbe anch’essa essere maggiore. cambiamenti, beh, neppure a parlarne…

Quello che troppo spesso non viene considerato secondo me è il ruolo del gatekeeper. In tutti i casi analizzabili del passato credo che si rintracciabile una figura che abbia permesso a queste menti di potersi esprimere. che abbia loro dato occasione di accedere ai media dell’epoca, di esporsi, di creare e subire polemica. Di entrare a far parte delle occasioni di conversazione della società intera.

oggi, nonostante l’utopia della rete che permette a tutti di conversare liberamente e dovrebbe garantire a tutti lo stesso livello di democraticità. Questo processo sembra essersi indebolito. Viene allora da domandarsene le cause.

Partirei da un dato. La rete frammenta i pubblici, estremizza i guadagni.

La coda lunga esiste da sempre come concetto economico, ma esso non era applicato alle reti sociali. Applicato ad esse assistiamo a due processi divergenti. Da un lato alla distribuzione del pubblico su un’infinità di soggetti, dall’altro alla concentrazione della stragrande maggioranza del pubblico su pochi siti specifici. Se contiamo anche che, nelle reti, si considera il valore economico elevarsi al quadrato del numero di utenti, mentre nella società tradizionale il rapporto era sistemico, 1 a 1 abbiamo come risultato che l’economia, che è gestita da pochi accaparra in rapporto molto più di prima. E anche con un pubblico interessato, se non ci sono soldi non si va lontano (la crisi degli editori e dei media in generale, che si uniscono e si integrano ricorda nulla?).

Un dominio nel campo della ricerca e del valore da essa prodotto come quello di Google oggi, non è mai esistito. Un dominio di pochi siti quanto a traffico e valore economico come oggi non è mai stato visto. E se pensiamo che questa oligarchia sia diversa dal passato, che garantisca il facile ingresso dei nuovi, un poco ci sbagliamo. Perché, come in passato essa sa usare i contenuti dei nuovi per autosostenersi e rinviare il cambiamento, perché essa se non riesce a controllare il nuovo, spesso se lo compra e lo ingloba.

Il fatto che oggi la spesa dei consumatori negli acquisti online potrebbe anche semplicemente essere spiegabile col fatto che essi propongono prodotti che il mercato tradizionale non è più capace di offrire. Una rentabilità di un maggior numero di prodotti anzi pare essere sempre più lontani visti gli ultimi dati economici sui prodotti culturali. La rete estremizzerebbe ulteriormente e paradossalmente il divario tra successi e insuccessi.

la democraticità della rete è in fondo solo teorica, permessa dal mezzo, ma resa estremamente difficile in realtà dalle pratiche umane che fanno la comunicazione attraverso il mezzo. Il tempo per cercare il nuovo semplicemente non c’è, spesso ci si accontenta del vecchio. Per questo la necessità di una presenza critica davanti all’utopia tecnologica.

Se ora io stessi scrivendo la stessa cosa su Nazione Indiana (tutti dovrebbero seguire questo splendio progetto comune, rarità nel nostro asfittico panorama. E ce ne vorrebbe uno per ogni altro argomento), su Repubblica.it (se non fosse in perenne sciopero come ogni giornale italiano) o su un libro edito da Mondadori, davvero sarebbe la stessa cosa? Che se il contenuto di questo post ha valore prima o poi emergerà in rete?

Non ci credo più di tanto, esso resterà in questo blog a meno che uno dei signori dei siti di cui sopra, o simili, non capiti di qui per caso e non riprenda il tutto. Casi contrari, di fenomeni partiti e conclusisi dal basso verso il basso, senza l’intervento di grandi soggetti sembrano solo eccezioni che confermano la regola. Negli altri casi avrebbe avuto indubbiamente un impatto diverso. a parità di qualità.

Con questo non voglio dire che la rete non funzioni, anzi, spesso permette alle notizie di espandersi e di essere colte molto meglio che attraverso i media tradizionali, ma l’utopia che la rete sia orizzontale è tale, un’utopia appunto.

Forme di organizzazione che mi paiono destinate ad avere maggiori possibilità sono quelle di aggregazione. Un blog collettivo sa richiamare più traffico, sa proporre più contenuti interessanti e dare al contempo maggiori possibilità di sostenersi economicamente agli autori. Eppure il collettivo a livello intellettuale ha sempre incontrato difficoltà. Provate a dire qualche nome di pensatori in coppia o più, al di là di Deleuze e Guattari… Dura eh?

Questa maggiore concentrazione dunque crea difficoltà anche ai movimenti di pensieri, perchè solo se uno dei grandi protagonisti concede spazio essi possono manifestarsi ai più. Ed essendo sempre minore la possibilità, semplicemente diminuiscono o scompaiono.

Restano allora le piccole ventate d’aria fresca, le iniziative dal basso, personali, per forza di cose più deboli e semisconosciute. Ma non credo sia una caratteristica data dal tempo, quanto dall’organizzazione. Oggi abbiamo ad esempio un comune sentimento di precarietà che ci unisce, come mai è successo fino ad ora nella storia dell’umanità. Abbiamo un comune sentimento di fastidio per la commercializzazione di ogni parte della nostra vita, come mai prima.

ma siamo semplicemente frammentati. E se dalla frammentazione possono scaturire infinite galassie di conversazione e il dialogo è l’unica risorsa. Come fanno questi piccoli atomi ad avere potere se non cercano di riunirsi in qualche modo?

Bisogna riunire le forze, lanciare progetti collettivi, lanciare discussioni che vengano tenute a galla per un tempo maggiore. E cercare di portare questi risultati fuori da qui, a più persone possibili.

Sia chiaro che si sta facendo qui un riduzionismo estremo, siamo tutti ben consci che la realtà sia estremamente più complessa…

Qualche progetto da proporre?

Qualche suggerimento?

Qualche altra idea?

2 thoughts on “Movimenti intellettuali e frammentazione”

  1. Questa idea del precariato credo sia forse il più grande punto di unificazione che ci si ritrovi oggi. Preoccupante a pensarci.

    Soprattutto perché è un fenomeno aggiuntivo dell’individualizzazione di massa che la nostra società rappresenta. Come riunirsi, pur avendo tutti uno statuto comune nel momento in cui ognuno è sottoposto a regole diverse?

    Praticamente impossibile se si prescinde dall’etica stessa del precariato, da una sorta di filosofia. E si sa che essa non va di moda ultimamente.

    La domanda allora è… Possibile agire su progetti chiari prima ancora di essersi potuti aggregare e di raccogliere poi gente per strada? Come si comunica e si cresce se ognuno resta una monade irraggiungibile? Non saprei, qui c’è qualcosa che ha l’aria del circolo vizioso!

    Attendo che le tue idee maturino intanto, io ne ho una o due sotto mano di cui sto cercando di valutare la fattibilità. Spero di poter dire di più a breve…

  2. simone, ti sei risposto da solo. a un certo punto ci vogliono soldi e tempo, risorse che non sempre sono disponibili, a meno che “a meno che uno dei signori dei siti di cui sopra, o simili, non capiti di qui per caso e non riprenda il tutto”. non sono una nichilista, non mi sarei imbarcata in tante cose se fosse così. però ho dovuto semplicemente arrendermi a una realtà imprescindibile. pensa al movimento dei precari in Italia, San Precario. bello, ma temo più folkloristico che altro. aggregazione per l’aggregazione. dove il progetto non si vede. e quindi non si va da nessuna parte.
    quindi, posto che dire no non è sufficiente, umilmente mi chiedo se non sia il caso di abbandonare la strada storicista, interrogandosi sulle cause, per intraprenderne una “semplicemente” fattuale: c’è un progetto? dove vogliamo andare? per fare cosa? eccetera. a partire da quel momento sarà più chiaro.
    progetti no, per ora, solo qualche idea, allo stato ancora embrionale. quando sarà definita sarai il primo a cui la sottoporrò. parola di scout.
    giuliana

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