I nostri giorni

Un giorno, era il luglio del 2005, tornavo in auto verso casa.
Un giorno d’estate afoso e umido come tanti lungo la costiera romagnola invasa dai turisti. Riportavo l’auto a casa dopo averla usata la sera prima ed essermi poi fermato a dormire in albergo, dove lavoravo. Normalmente non mi spostavo da là; il giorno in piscina, poi in giro con gli amici, un salto in camera a dormire e si ricominciava. Ma il giorno prima avevo l’ultimo esame dell’anno ed ero andato a sostenerlo, prendendo una mezza giornata libera. Avevo quindi la macchina con me quando sentii questa ragazza, con cui avrei voluto uscire da tempo dirmi che era in vacanza a due passi e che si, si poteva fare per quella sera, magari.
Un giorno afoso d’estate, allora, dopo una splendida serata passata a camminare, a chiacchierare, a guardarsi le mani.

Arrivai a casa poco prima delle due del pomeriggio. Lasciai le chiavi sulla mensola dell’ingresso, presi un foglio e scrissi un titolo: “Europa”, la premessa di una poesia che avrei scritto prima di uscire, mi ripromisi.
Stavo ancora accatastando versi incongrui quando giunse mio padre, salutò, accese la televisione, come d’abitudine, e il mondo entrò violento in casa, nella quiete del primo pomeriggio. Una, due, quattro bombe avevano squassato il ventre di Londra, e le immagini indugiavano incredule su un double decker, uno di quegli autobus a due piani, quelli rossi, sventrato come una gengiva senza più dente.

Guardai le immagini e credo di averle metabolizzate come una mancanza acuta di sentimento. Non sapevo come sarei dovuto sentirmi, quale sarebbe stata la reazione appropriata. Che fare?
Non ci fu tempo di darmi una risposta, dovevo comunque prendere l’autobus e tornare al lavoro. Non c’è tempo per l’incredulità in questa società.

Non ero neppure giunto alla stazione degli autobus quando mi chiamò. Piangeva, io che la conoscevo a malapena la sentivo piangere dicendo che no, non capiva, che aveva bisogno di sentire qualcuno, che non era possibile. Non mi conosceva neppure, non mi disse di cosa parlava, mi chiese solo come era possibile. Mi chiese perché certe cose potessero accadere. E io non avevo alcuna risposta da darle, nessun fazzoletto da porle, nessuna garanzia da sbandierare. Dissi che…Non ricordo che dissi, di certo una di quelle squallide scuse che consolano solo per il fatto di averci provato, per lo sforzo nel fingere di avere risposte a domande che non ne hanno. E mi innamorai di lei.

Sono fermamente, formalmente convinto di essermi innamorato di lei in quel momento, nell’istante in cui da perfetta sconosciuta si permise di telefonarmi e piangere. Nelle sue lacrime lessi la speranza, la certezza che non tutto è perduto se qualcuno può ancora permettersi di piangere per la follia degli altri. Anche se non arriva a toccarlo, anche se è lontana, anche se è senza senso.

Questi due avvenimenti, la sovrapposizione di due stimoli, di due gamme cromatiche, di due sentimenti tanto lontani, diedero avvio ad un periodo ricchissimo per me, sei mesi di genio e follia, sei mesi di progetti e realizzazioni senza sosta, con lei, che leggeva i quotidiani dalla fine all’inizio, sperando di non avere tempo per terminare, per poter saltare le notizie peggiori. Per lei. Tra tutto questo, tre raccolte poetiche, il mio primo volo, la partenza per Parigi, una relazione di una forza che continua a stupirmi.

Quel pomeriggio cominciai a scrivere “E Londra è il nostro tempo”. Una riflessione, una lotta per giustificare la necessità di andare avanti, per opporre il silenzio della fiducia al rumore delle esplosioni. Credo sia la cosa che ho scritto cui sono più legato, tesa tra l’amaro in bocca e la speranza, tra la disillusione incombente e il diritto di credere ancora in qualcosa. La necessità di gettare una serie di brevi sorrisi in mezzo alla confusione del mondo, guardandola con occhio pulito.

Questa riunione inattesa tra il mio assoluto provato e il contemporaneo bruciante, tra questa crudezza e questa nostalgia erano il baluardo di un coraggio che non riconoscevo in precedenza, coraggio di soffrire, di volerlo fare con intensità fisica per la desolazione intorno. E di farlo parlando di futuro.

Continua…

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.