Non è possibile uscire da un liceo senza avere un filosofo prediletto. Prendere parte alla contrapposizione tra Platone e Aristotele o tra Hegel e Nietzsche è uno dei momenti topici, forse persino uno dei più divertenti che accompagnano gli anni che conducono agli esami di maturità. Ogni liceale che si rispetti, quindi, si ritrova a lasciare i muri in cui ha scaldato il banco (se proprio non aveva intenzione di fare altro) con ben chiaro in testa quale filosofo secondo lui “aveva ragione”, “era migliore” rispetto agli altri.

Statisticamente mi è parso che Nietzsche fosse colui che riscuoteva il maggior numero di consensi, molto più del critico Kant, o del Mastodontico Hegel; Platone, Aristotele ormai troppo lontani, Parmenide considerato come un outsider un po’ matto. Io ho lasciato il liceo con in mente un’abbozzata e sconsiderata ammirazione per Soren Kierkegaard.

Ormai è passato qualche anno da allora, la strada presa non è in questo momento poi cosi prossima alla filosofia, il tempo di lettura sempre impegnato da tutta una serie di testi da consumare il prima possibile per non rimanere troppo in ritardo, il proposito di leggere le opere di Kierkegaard con una certa calma rimane spesso più che altro un’intenzione, ma oggi finalmente riesco a parlarne un attimo.

Ho espresso questo desiderio già qualche mese fa, rinviandolo poi per tutta una serie d’impegni, la riprendo oggi, all’indomani di un acquazzone che ha rinfrescato l’aria romagnola e ai limiti del quale sono andato a Sarsina per vedere uno spettacolo all’arena plautina. Da domani torneremo a studiare al mare, oggi dedico un po’ di tempo ad una delle rare persone in cui si può chiaramente vedere come la melanconia non sia una penitenza, ma piuttosto la grazia di pochi. Ben lungi dal ridursi ad una caduta e ad una riflessione sulla caduta, la melanconia Kierkegaardiana è il primo elemento distintivo attraverso cui leggere la sua opera letteraria e filosofica, un primo elemento d’ordine nel novero dell’incredibile quantità di materiale da lui prodotto.

L’opera di questo grande filosofo è, infatti, prima di tutto rizomatica. Un universo incredibile di pseudonimi, di rimandi, di riflessioni intrecciate ed esitazioni, variazioni e corrispondenze come quelle di una sinfonia che costringono ogni volta a dover fare i conti non con un solo narratore, non con un solo personaggio, ma con l’identità multipla e continuamente variabile di qualcuno capace di rinunciare all’ordine e all’autorità per giungere ad esprimere la propria identità, i propri dubbi, la propria malinconia costruttiva.

L’opera di Kierkegaard, a cavallo come in pochi altri casi, tra letteratura e filosofia è stata spesso definita come oscura e labirintica, come elogio della disperazione, come riflessione cupa ed oscura. A me è sempre apparsa sotto una luce completamente differente. Kierkegaard mi è sempre sembrato una sorta di profeta della modernità, vate di una metodologia di pensiero a venire capace di liberarci dalle strette maglie di una razionalità impoverita e di una riflessione gerarchica basata sul concetto delle autorità. Kierkegaard è sempre stato per me il simbolo di un elogio vivente all’enciclopedia dei saperi, del pensiero eclettico, del dubbio continuo che impedisce di fermarsi di fronte ad un’evidenza sterile e destinata ad essere smentita.

Kierkegaard è colui che, tra il razionalismo greco e il pensiero religioso cristiano, opta per il secondo, ma non troppo. Fa quindi una scelta che esce da ogni idea praticabile a priori, cominciando ad elaborare una terza strada laddove il bivio ne prevedeva soltanto due, e inizia a costruire un nuovo modello, basato in primis sulla centralità dell’individuo e il ruolo della scelta personale, del libero arbitrio (che sarà ripreso in seguito in maniera molto semplificata da Sartre, senza contare gli altri autori che si richiameranno al filosofo danese, da sempre molti e molto influenti, anche se la vulgata filosofica non lascia trasparire questo ruolo di guida. Ricorderei tra gli altri Jaspers, Heidegger, Husserl, Kraus, Wittgenstein, Adorno, Gadamer, Ricoeur e via dicendo…) che solo sarebbe in grado di salvarci dalla semplificazione costante del dominante senso comune pseudorazionale.

Kierkegaard è autore capace di lasciarci un pensiero in fieri, una concezione dello stesso “sperimentale”, capace non di lasciarci cadere dall’alto una verità, ma di mostrarci attraverso la nostra stessa individualità i molteplici modi d’esistenza, le molteplici maniere d’essere tra i quali siamo forzati ad oscillare nel corso dei nostri giorni. Nunzio di un nuovo modello di pensiero, più leggero, più adatto al nuovo mondo nel quale stiamo entrando, privo di verità stabilite a priori e costruito su multiple dimensioni.

Cosi Kierkegaard non sarebbe da leggere come un autore che ha lasciato alla nostra tradizione filosofica qualche concetto importante come l’angoscia, la scelta, la disperazione o simili, quanto come il rappresentante di un sistema di valori quanto mai contemporaneo e inevitabilmente refrattario agli estremismi, cristiani o islamici che siano.

Per cominciare a coglierla, purtroppo e per fortuna, non può bastare semplificare la sua opera, irrigidirla in qualcuna delle sue dimensioni specifiche, ma occorre navigarla, esplorarla seguendo i nessi che l’autore ci propone ed inventandone di nuovi. La ricchezza dell’arcipelago kierkegaardiano sta tutta qui, nelle indefinite rotte che possiamo tracciare tra un approdo e l’altro, nelle molteplici letture che lo stesso passo di permette a seconda che giunga dopo questo o quell’altro passo, a seconda che lo si legga al mattino o alla sera, al mare o in coda in autostrada.

Questo arcipelago ci permette, in un mondo in cui la direzione e l’intensità del vento non sanno mai essere esplicite, di aiutarci a mantenere la nostra condizione d’uomini liberi, continuando a dubitare, ad essere melanconici, a cercare. Perché queste sono le condizioni fondamentali del nostro essere, l’eterna insoddisfazione che non sa rinunciare ad essere positiva, la contentezza che non sa arrivare e che a volte ci viene rinfacciata. Per quanto poco futuro possa mai rimanerci, esso sarà sempre kierkegaardiano e da qui un’intramontabile attualità.

(Questo piccolo intervento è nato in seguito, il 25 aprile scorso, alla pubblicazione in Francia del primo volume dei Diari del filosofo danese, in una nuova versione pubblicata in comune tra Fayard e le edizioni de l’Orante che già hanno curato la precedente edizione delle Opere Complete)

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.