Sono giorni indecisi questi, tra tanti impegni e troppi dubbi. E mi viene un po’ da lasciare in secondo piano questo spazio, teso come sono tra il mio inventarmi un senso ai giorni a venire e quel bisogno di stare il più possibile vicino ad alcune persone in questo momento determinato.

Eppure ci sono dubbi e curiosità ben più ampi che sorgono di tanto in tanto. Ecco quello di oggi:

Si parlava di psicologia oggi. Non è una novità il fatto che io non l’abbia mai apprezzata al di fuori del mondo della ricerca accademica. Non amo psicologi, psichiatri ed esseri simili ed eventuali. Un po’ per tutta una serie di convinzioni, un po’ per partito preso.

Mi ha sempre colpito lo sviluppo formidabile della psicologia spicciola mischiata col senso comune, del numero sempre più alto di persone che ha bisogno di un punto di riferimento professionale per la gestione del proprio equilibrio. Forse al di là del necessario.

La psicologia clinica, tesa com’è tra la ricerca di definizioni esatte per descrivere il proprio oggetto lavora direttamente sull’uomo, arrivando a volte a rendere ogni disequilibrio (disequilibri che io ritengo siano l’unico equilibrio che ci è presentato nella vita) come un qualcosa di patologico, come un disturbo clinico, creando attorno ad essi un’importanza, un peso che forse non si troverebbero ad avere altrimenti.

E veniva da domandarsi quanto i problemi che le persone che sono in analisi siano veramente tali, fino a quanto essi esistano a priori, prima di essere messi in chiara luce, prima di essere definiti. Viene da domandarsi quanto essi non siano piuttosto simili ad una rottura di continuità che potremmo forse visualizzare con la teoria delle catastrofi, vicine al punto di rottura, ma sino ad allora perfettamente rientranti nei parametri di quella che potremmo definire come la norma.

Il timore è che siano le terapie stesse a provocare questa rottura, a rendere effettivamente malato quanto prima era solo leggermente fuori luogo. Etichettandolo e razionalizzandolo fino a dargli gli strumenti necessari per non renderlo più un qualcosa di guaribile con l’affetto, ma realizzandolo e costruendolo.

Sappiamo che la scienza non costruisce solo i propri risultati, ma anche il proprio oggetto d’analisi. Questo anche se non lo vuole ammettere ai profani. Trattandosi di noi, forse sarebbe meglio essere sinceri per una volta, e cercare veramente di capire fino a che punto la concentrazione su un problema invece di risolverlo possa crearlo e dargli vita. E’ il linguaggio, è il pensiero che si predetermina e acquista senso solo grazie al proprio stesso esistere. E’ lo psicologo che crea il bisogno del paziente che solo in questo modo potrà risolvere un problema che in realtà poteva anche non avere.

Non è mai esistita altra profezia oltre a quella che si autoavvera.

6 thoughts on “La prederminazione del linguaggio.”

  1. Eh, questa è una cosa talmente evidente al buon senso che solo rarissimamente riesce ad entrare all’interno delle definizioni dette “scientifiche”.

    Sarei curioso di vedere la faccia del mio prof se gli portassi qualcosa di scritto in cui pongo limiti grazie al mio buonsenso.

    A me farebbe un sacco piacere, ma un po’ temo la reazione!!!

  2. Certamente. Ho parlato solo di psicologia infatti, limitandomi a segnalare un non apprezzamento generale per i vari-ed-eventuali che agiscono in terreni non troppo distanti diciamo…

    Ed è proprio questa stessa nozione di normalità che fatico a recuperare, questo presunto stato di quiete e giustezza in mezzo all’insolito. Da tanti anni la cerco e ancora non sono riuscito a vederne neppure l’ombra.

    La normalità mi pare sempre ricostruita a posteriori, escludendo sempre qualcosa. Non penso esista in quanto tale.

    Per questo il differenziare tra la diversità e la patologia è stato capace di spostarsi cosi tanto nel tempo e nelle culture.

    Per questo anche questa seconda differenza mi pare dubbia e il pretendere di fissarla con scientifica precisione (espressione che già avrebbe il suo bel daffare per dimostrare di avere un senso!!!) potrebbe condurre quasi sempre all’errore.

  3. c’e’ una cosa, che tengo sempre a mente, che ho imparato dalla psicologia [psicologia e non psicanalisi, sono due cose molto diverse]: il confine tra il ‘normale’ e il ‘patologico’ sta solo nel quanto ti impedisce di vivere la tua vita.
    nel momento in cui qualcosa si intromette in quello che vuoi, allora si ha senso farsi aiutare. ma farsi aiutare non vuol dire fare anni di psicanalisi.
    in parole povere, da vicino nessuno e’ normale. il problema e’ scambiare le proprie diversita’ con la patologia. e questo certo, e’ anche colpa dei cattivi psicologi.

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